Ocimo fornaro e i spinaroli

(PG) Proponiamo il testo tratto dal libro “I magnagati” di Virgilio Scapin (1932-2006), uno dei più significativi intellettuali veneti del secondo Novecento. Il racconto “Le fascine del pane” ci consentono di ricordare un nostro compaesano, Prosdocimo Chilese, conosciuto da tutti come Ocimo, uno dei fornai del paese, della sua bottega e degli spinaroli.

 

Foto di famiglia di Graziana Chilese che ritrae, da destra, Tita Carollo (nonno materno-campanaro di Ignago), Ocimo (papà), Vilma (sorella), Virginia (mamma) con in braccio Graziana e di fianco Mariangela (sorella).

“Ocimo era il fornaio di Monteviale, con bottega all’inizio del paese che si conquistava dopo una lunga salita. Su quelle colline, mio nonno possedeva dei campi lavorati a mezzadria e io l’aiutavo a portare a casa la parte del raccolto che gli spettava. A quel tempo, i problemi degli spostamenti e dei trasporti si risolvevano con la bicicletta. La mia, come quella del nonno, era una macchina solida, pesante, atta a trasportare sporte appese al manubrio, alla canna, sistemate sui portapacchi anteriore e posteriore: sembravamo incastrati tra le mercanzie che trasportavamo. Arrivavamo ai piedi delle alture senza sprecare troppe energie, i guai cominciavano con la salita. Spingevamo faticosamente le biciclette pesanti che si intestardivano a progredire con estrema lentezza per la strada come muli recalcitranti. Allora ci fermavamo accaldati lungo le masiere, vi appoggiavamo i riottosi mezzi meccanici, ci consolavamo al pensiero della rapida, divertente discesa. Arrivavamo in paese grondanti di sudore, abbondonavamo le crudeli biciclette appoggiate al muro, ci fermavamo da Ocimo per rifocillarci. Divoravamo un enorme pezzo di pane bianco ancora tiepido e velato di cenere. Nella bottega erano accatastate ovunque delle montagne di cenere , il suo odore acre si spandeva fin sulla strada. Ocimo imbiancato di farina, gettava dentro il forno, con un forcone, fascine di spinaroli, che si incendiavamo rapidamente, sprigionando un intenso calore, cuocendo il pane alla perfezione. Le donne venivano a prendere la cenere con i secchi, serviva per il bucato. Con la bocca ancora piena di quel pane dal sapore acidulo per il velo di cenere che l’avvolgeva, spingevamo la bicicletta bardata verso la casa dei mezzadri, con i quali il nonno era sempre in conflitto per la spartizione dei raccolti. Ai nostri giorni cuocere il pane in un forno a legna è addirittura un reato. Non deve più recare tracce di cenere che farebbe inorridire gli igienisti odierni. Anche nelle case, le cucine economiche un tempo funzionavano a legna, il fuoco crepitante ci accompagnava nelle sere d’inverno. C’era tutto un corpus di leggi riguardanti l’approvvigionamento delle legne.

 

Foto di Augusto Bertoldi pubblicata sul gruppo Fb “Sei di Monteviale se…”, sulla destra di possono notare le fascine

La fascina è un fascio di legna minuta, rametti o sterpi usato specialmente per bruciare; la sua lunghezza è variata nel tempo, non deve però aver mai avuto una circonferenza maggiore di 56-57 cm che corrispondono al diametro di 18 cm. Ciò per evidenti ragioni tecniche, giacché per fascinare si raccoglie la legna con le mani aperte e allo stesso modo se ne verifica praticamente la misura. Fino alla metà del secolo scorso [XIX], la fascina di Vicenza, proveniente la più pregiata dai colli situati ad occidente e a meridione della città, aveva appunto un diametro intorno ai 18 cm e una lunghezza di 2 metri (che potrebbe corrispondere originariamente alla lunghezza di una pertica). Sui Colli Berici si fassinava a fine inverno tagliando il bosco di sei, sette anni di vita. Le fascine spinarole si confezionavano senza tante regole, bastava legare insieme i rovi sarmentosi, ribelli. Si caricavano, si portavano a casa o dai fornai. Qualsiasi altro commercio era escluso. I mezzadri del nonno erano obbligati a fornire un numero stabilito di fascine di legno forte, rovere, faggio, legate a regola d’arte. I contadini tendevano ad imbarbarirne la qualità unendovi piante scadenti. Il nonno indugiava presso la fassinara per esaminarne la qualità. Nell’autunno inoltrato, un carro tirato da un mulo brioso, scendeva dal monte. Partiva all’alba, arrivava a casa del nonno a mezzogiorno. Marinavo la scuola, mi appostavo a un chilometro da casa, accompagnavo festante il mulo in processione nell’ultimo tratto di strada. Il mezzadro, seduto sulle fascine, schioccava allegro la frusta. Entrava trionfalmente nel cortile, la bestia era staccata dalle stanghe, immergeva il muso dentro a un sacco di fieno, beveva da un mastello dove facevo il bagno. Mollava per terra montagne di petolotti fumanti, sostentamento prezioso per i fiori della nonna. “E’ mio” dicevo orgoglioso ai compagni che tornavano da scuola e si fermavano davanti al cancello ad ammirare il mulo che divorava interi sacchi di fieno, bevendo mastelli d’acqua. Il nonno palpava le fascine, una ad una, sempre brontolando. Il mio destriero, satollo, si lasciava carezzare sul muso, le ultime mosche si posavano sul suo immenso mantello roano.” 

Un ritaglio di una cartolina d’epoca (dal libro “All’ombra dell’olmo”); a destra si possono notare le fascine di Ocimo

 

Un’altra foto dal libro “All’ombra dell’olmo” in cui è visibile la catasta di spinaroli

 

Degli spinaroli ci aveva già detto qualcosa l’amico Luigi Pelattiero di Creazzo, riferendoci di quando nel 1946 da bambino si recava nel bosco col padre:” Sai cosa vuol dire fare i spinaroli? […] il proprietario del bosco ti assegnava una striscia larga circa 50 metri. Si doveva pulire il bosco dalle russe lasciando le piante buone, grandi e piccole. Cosa sono le russe, le russe sono dei cespugli pieni di spine che non lasciano crescere le altre piante. Per tagliarle si dovevano usare i guanti ricoperti di pelle di corrame per proteggersi dalle spine. Si facevano delle fassine che dovevano essere portate giù in fondo al bosco e fare un fassinaro mettendole le une sopra le altre. Quando si aveva terminato, veniva il padrone del bosco a controllare se era tutto fatto bene e le divideva. Ogni tre fassine al padrone, una a mio padre, che a mio padre servivano per metterle nel fuoco per scaldarci alla sera d’inverno; venivano portate a casa col carretto trainato dall’asino. E alla sera d’inverno eravamo tutti lì, seduti attorno al camino per scaldarci […] ma scaldavano poco. Mio padre si sedeva lì e fumava la pipa e mia mamma lavorava ai ferri. […] e verso le nove, tutti a letto.”

Per un approfondimento su Virgilio Scapin CHIARA_PIGATO_2017 SU SCAPIN