(PG) Per dare completezza alla figura di questo importante prelato della comunità montevialese del seicento, affianchiamo, alla biografia di don Matteo Roncà tratteggiata dall’associazione “Gli amici di Montebello”, quella che Stefano Corato, nostro socio, ha raccontato nel suo libro “Monteviale dal tardo medioevo alla fine dell’età moderna”:
[…] Nel 1648, durante la visita del cardinale Marco Antonio Bragadin vescovo di Vicenza, il parroco di allora don Matteo Roncà dichiarò di avere in totale 400 anime, di cui 250 erano gli adulti e 150 i bambini. […] ad una precisa domanda dell’importante uomo di Chiesa sulle modalità e circostanze della sua immissione nel possesso del beneficio parrocchiale di Monteviale. si affrettava a rispondere che essendo arrivato in parrocchia da pochi mesi non aveva ancora avuto il tempo necessario per prendere consapevolezza della realtà morale e sociale del villaggio: “[…] questo Beneficio è di collatione dell’Ordinario et l’ho havuto in permuta ch’è poco dal Rev. Tavola”. Le parole del rettore della chiesa di S. Maria anticipavano chiaramente al vescovo l’impossibilità di ottenere risposte esaurienti a tutti i quesiti che avrebbe posto durante la conversazione confidenziale, e contenevano senz’altro una parte di verità, poiché don Matteo Roncà aveva permutato da pochi mesi il beneficio ecclesiastico di Mossano con quello di Monteviale. Tuttavia, più o meno volutamente, omettevano un’informazione molto importante, e cioè che egli era già stato in passato rettore della chiesa di Monteviale, ed era abbastanza anomalo ritrovarlo ad una certa distanza di tempo a ricoprire il medesimo incarico nella stessa parrocchia. Infatti, dopo trent’anni di governo nella cura delle anime dei fratelli Giovanni e Paolo Puschiavo (1591-1621), di cui peraltro non ci sono rimaste informazioni significative, don Matteo Roncà era subentrato alla guida della nostra parrocchia. […]
La sua esperienza però si era conclusa dopo una decina d’anni, alla fine del 1630, nel pieno dell’epidemia pestilenziale, quando per motivi legati all’infuriare della peste, aveva lasciato il villaggio per subentrare nel beneficio di Montecchio Maggiore resosi vacante per la morte del parroco titolare. (Don Matteo Roncà infatti, alla fine del 1630, subentrò all’arciprete Gagliardi della parrocchia di S. Maria di Montecchio Maggiore deceduto a causa della peste, ma rimase in carica solo breve tempo, poiché nel 1632 per «risegna» risultava già sostituito da un altro religioso.) Il curato che lo sostituì, don Ottavio Tavola, arrivò in paese verso la fine del 1631, quando la peste, superata la fase culminante, stava ormai mietendo le ultime vittime tra gli abitanti della comunità. […] Dopo un periodo di relativa normalità, fu attorno al 1646 che i rapporti tra il rettore e la comunità, per motivi di carattere economico, cominciarono però a guastarsi, sfociando poi nell’allontanamento del parroco. […] alla fine il parroco, resosi conto della difficile situazione che si era venuta a creare con i suoi fedeli […] maturò l’idea di andarsene. L’occasione si presentò l’anno successivo, e presumibilmente fu cercata dagli stessi amministratori della comunità, che avevano mantenuto un buon ricordo del parroco precedente, e che attraverso la mediazione di suo fratello, il notaio Marco Roncà, che aveva continuato ad esercitare la sua professione a Monteviale anche quando il fratello sacerdote se ne era andato, favorirono l’accordo tra don Tavola e don Roncà. I due religiosi permutarono i rispettivi benefici parrocchiali, e così don Matteo Roncà a sedici anni di distanza faceva ritorno come rettore nella nostra villa, ben accolto dalla popolazione, e dove rimase poi fino alla sua morte avvenuta nel 1670. […] Risale al 31 agosto 1647 l’atto di vendita dei fratelli Marco [notaio] e Matteo Roncà di tutte le loro proprietà in Montebello Vicentino al conte Alfonso Loschi, con il successivo trasferimento di tutti i loro interessi in Monteviale.[…]
Durante la visita pastorale del vescovo Giovanni Battista Brescia compiuta nell’aprile 1656 il parroco don Matteo Roncà non aveva particolari problemi da segnalare. […] In conclusione possiamo affermare che sebbene al rettore fossero pervenuti ordini, consigli e moniti al termine di queste due [dei due vescovi] visite pastorali, che avevano messo in evidenza anche aspetti irregolari della vita parrocchiale, e nonostante egli fosse stato così generico nelle sue relazioni ai vescovi da non denunciare, cosa alquanto strana, alcun comportamento o avvenimento poco rispettoso della morale cristiana, ad esempio persone che bestemmiavano o disordini e fatti di violenza accaduti nel villaggio, la considerazione finale alla quale possiamo giungere, è che sostanzialmente nella parrocchia di Monteviale, ad un secolo dalla chiusura del concilio di Trento, le nuove direttive riformatrici impartite erano state in parte recepite dalla comunità, e sicuramente don Matteo Roncà, con tutti i suoi limiti, aveva dato il suo contributo affinché questo potesse avvenire. A quanto pare il nostro rettore fu un esempio di quel nuovo clero che con tanta caparbietà i vescovi postconciliari cercarono di formare. Religiosi sufficientemente preparati, soggetti a periodici controlli e generalmente ben voluti e considerati dalle comunità parrocchiali di cui si prendevano cura. Nella piccola realtà di Monteviale questo sacerdote si calò con zelo ed abnegazione per più di trent’anni, cercando di conoscere a fondo le sue anime, di comprenderne non solo i pregi ma anche le debolezze e ridimensionarne a volte il comportamento poco cristiano. Non è un caso se nei questionari che gli furono sottoposti dai vertici dell’episcopio vicentino, egli non mai dato indicazioni e nemmeno allusioni alle baruffe e divisioni che travagliavano la società di Monteviale. Questo perché sicuramente sarebbe stato coinvolto in parte anche il suo operato, non offrendo quindi una bella immagine di sé, di certo perché non aveva alcun interesse a scontrarsi con le famiglia più influenti del paese, ma anche per una forma di buon senso nei confronti dei suoi parrocchiani per i quali rappresentava pur sempre la loro guida spirituale. Dalle poche informazioni che emergono dai documenti e senza magnificarne l’operato, si ricava comunque un’immagine di un rettore che lasciò il segno nella comunità parrocchiale di Monteviale, guidandola durante il periodo iniziale della grande peste, e facendosi anche patrocinatore nel 1668, con l’intervento fondamentale del comune, di un restauro generale della piccola chiesa di S. Maria e della costruzione del nuovo campanile. Il 5 febbraio 1670 sentendo ormai l’avvicinarsi il momento della morte, scrisse di suo pugno il testamento che consegnò al cappellano don Giuseppe Pelosato. Anche con queste ultime volontà dimostrò il legame profondo che era riuscito a costruire nel tempo con le sue anime. Stabilì infatti di essere sepolto in chiesa, ma ciò che è più significativo fu la scelta di beneficiare con le sue proprietà (a dire il verso molto poche trattandosi solamente di otto campi denunciati nell’estimo generale del 1665 assieme al fratello Marco) in larga parte alla parrocchia di Monteviale che lo aveva avuto parroco per lungo tempo. Con la sua morte avvenuta qualche mese dopo, il piccolo villaggio di Monteviale perdeva uno dei suoi sacerdoti di maggior spessore culturale e dottrinale della sua storia passata.